Iraq: Si sta risollevando dopo anni di conflitti, ma i rischi politici si prospettano elevati ancora per diversi anni a venire

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La violenza politica rappresenta il principale fattore di rischio di MLT, che dovrebbe però rimanere stabile nei prossimi anni
  • La violenza politica rappresenta il principale fattore di rischio di MLT, che dovrebbe però rimanere stabile nei prossimi anni.
  • Le tensioni tra USA e Iran e gli attacchi insurrezionalisti rappresentano il rischio maggiore per l’Iraq.
  • È improbabile che si sviluppino rinnovate tensioni settarie nel medio termine.
  • La remissione del debito a metà anni 2000 ha riportato i livelli di indebitamento su un percorso sostenibile.
  • Il calo dei prezzi petroliferi potrebbero far deteriorare rapidamente gli indicatori economici, sebbene rimarrebbero sostenibili in uno scenario negativo.

Dalla destituzione di Saddam Hussein nel 2003, l’Iraq ha attraversato un periodo turbolento di guerra civile contrassegnato da tensioni settarie e frequenti focolai di violenza politica. Negli anni ciò ha segnato profondamente il quadro istituzionale dell’Iraq. Dati i livelli relativamente bassi di debito con l’estero, e considerando la notevole dipendenza dagli introiti petroliferi, il principale fattore di rischio politico a MLT è stata la complessa situazione politica da quando il paese ha ottenuto la remissione del debito nel 2005. Tuttavia, la situazione in termini di sicurezza ha registrato un miglioramento costante da quando l’IS è stata sconfitta nella metà del 2017, sebbene i rischi legati alla fragilissima situazione politica permangano. Come spiegato in questo articolo, l’Iraq attualmente si trova ad affrontare cinque sfide cruciali che influenzeranno il rischio politico di MLT: (i) il rischio che le tensioni fra il governo curdo e il governo federale possano riemergere nel medio termine; (ii) il costante rischio di proteste popolari, soprattutto nei mesi estivi, sebbene non destabilizzanti per il paese; (iii) il possibile ulteriore aumento delle tensioni geopolitiche tra l’Arabia Saudita e gli USA da un lato, e l’Iran dall’altro, con possibile coinvolgimento dell’Iraq; (iv) la divisione tra le comunità sunnite e sciite prosegue irrisolta; e (v) il minimo ma non impossibile rischio di attacchi insurrezionalisti e l’incerto ruolo futuro delle Forze di Mobilitazione Popolare. L’eventuale combinazione del terzo e quinto elemento fra quelli elencati sopra potrebbe rappresentare il maggiore fattore di rischio politico di medio/lungo termine in Iraq. Tuttavia, pur essendo prudente prendere atto di queste debolezze, attualmente nessuno di questi elementi dovrebbe portare ad un improvviso deterioramento significativo della situazione del rischio politico in Iraq nel medio termine. Per questo motivo Credendo ha deciso di promuovere la classificazione del rischio politico MLT dell’Iraq nella categoria 6 (da 7).

La violenza politica quale fattore primario del rischio paese

Dalla destituzione di Saddam Hussein nel 2003, l’Iraq ha attraversato un periodo turbolento di guerra civile contrassegnato da tensioni settarie e frequenti focolai di violenza politica, cha ha avuto inizio subito dopo l’estromissione di Saddam Hussein, quando gli USA hanno insediato una autorità provvisoria, non essendo in grado di gestire la situazione impellente. Già nel 2004, un'insurrezione baathista aveva iniziato ad attaccare i simboli del nuovo stato e nel tempo si è trasformata in una vera e propria insurrezione contro il nuovo governo. Mentre questo accadeva, la popolazione ha cominciato a frammentarsi in fazioni settarie e nel corso del 2004 in tutto il paese si sono sviluppati gruppi di insurrezione sia sciiti che sunniti.

Nel 2005 è stato formato un Governo di Transizione (GT), dominato da sciiti e curdi, in quanto i sunniti avevano boicottato l’elezione. Il GT aveva il compito di gestire il crescente numero di attacchi insurrezionalisti e di redigere una nuova costituzione per l’Iraq, che delineasse un sistema parlamentare in cui i poteri esecutivi fossero conferiti al Primo Ministro e al Consiglio dei ministri. Data la loro assenza dal GT, la nuova costituzione che ne scaturì non fece proprie quasi nessuna delle richieste della popolazione sunnita, mentre soddisfece la maggior parte delle aspirazioni dei leader sciiti e curdi. Già questa rappresentò una chiara fonte di frustrazione per i sunniti dopo le elezioni del dicembre 2005, organizzate dopo l’entrata in vigore della nuova costituzione e l’insediamento di Nouri al-Maliki nel ruolo di Primo Ministro. Come sciita, era a capo del Partito Islamico Dawa. al-Maliki ha ricoperto l’incarico di Primo Ministro fino al 2014 ed è presto diventato uno dei leader politici più potenti in Iraq.

Nel corso del 2006, quando gli insorti sunniti distrussero la cupola d’oro della moschea di al-Askari a Samarra, il paese ha cominciato a scivolare inesorabilmente verso una guerra civile senza quartiere. Infatti, questo santuario rappresenta uno dei luoghi più sacri per la comunità sciita e quindi i bombardamenti hanno dato il via ad una catena di attacchi di rappresaglia contro le moschee sunnite in tutto il paese. Nel 2007 e per tutto il 2008, la violenza in Iraq ha cominciato ancora una volta a diminuire. Un elemento che ha giocato un ruolo importante è stato il fatto che gli USA hanno iniziato ad utilizzare le milizie arabe sunnite per debellare gli insorti nelle loro comunità, cosa che ha aiutato il governo iracheno a riaffermare il proprio controllo su molte città e villaggi sunniti. Tuttavia, sebbene la situazione fosse migliorata in termini di sicurezza, la situazione politica rimaneva bloccata sulle discussioni riguardanti l’interpretazione dei diversi elementi della costituzione e il ruolo del governo, a dimostrazione che l’Iraq era profondamento spaccato in fazioni settarie.

Dal 2008 al 2009, al-Maliki è stato in grado di espandere la propria influenza sulla scena politica irachena. Ha lanciato numerosi attacchi anti-insurrezionalisti in tutto il paese che sono serviti come attacco contro i gruppi di ribelli attivi, ma anche per eliminare le milizie avversarie. Si è poi ulteriormente alienato la popolazione sunnita, in quanto il bersaglio principale erano alcune milizie sunnite. Grazie all’uso strategico del clientelismo, al suo controllo degli strumenti coercitivi dello stato e la sua rete di alleati in tutto il sud del paese, ma soprattutto a causa della debolezza e dell’incoerenza dell’opposizione, al-Maliki è riuscito a mantenere la carica di Primo Ministro fino al 2014. Nel tempo ha esteso la sua influenza su tutte le istituzioni indipendenti, quali la banca centrale e la commissione elettorale.

Nell’agosto 2010 il Presidente Obama annunciava la fine di tutte le operazioni di combattimento in Iraq. La situazione di sicurezza era migliorata, e questo era un modo per disinnescare l’opposizione interna alla guerra in Iraq. Alla fine di dicembre 2011, tutte le unità militari statunitensi avevano lasciato l’Iraq. Tuttavia, mentre Obama annunciava la fine delle principali operazioni di combattimento, in Iraq cominciavano ad accendersi le proteste estive, sotto forma di manifestazioni popolari in tutto il paese da parte di entrambe le popolazioni sunnite e sciite. Le proteste si incentravano sulla mancanza di servizi di base, quali l’elettricità, e prendevano di mira la corruzione endemica. Dal 2010, quasi tutte le estati queste proteste si ripresentano, ma il 2010 e il 2011 sono stati senza dubbio il momento della loro massima espressione. A metà 2012, il dissenso ha preso una piega più pericolosa in quanto concentrato principalmente nelle zone sunnite del paese, e in aggiunta sono ripresi gli attacchi insurrezionalisti, che hanno aperto le porte all’ascesa dello Stato Islamico (IS) nel 2014.

Haider al-Abadi è diventato Primo Ministro dopo le elezioni del 2014, subentrando ad al-Maliki nonostante il suo partito fosse arrivato primo alle elezioni. L’estromissione è avvenuta quando al-Maliki non è stato in grado di ottenere la maggioranza e dopo che gli Usa e l’Iran gli hanno chiesto di non aggrapparsi alla poltrona, e va considerato uno sviluppo positivo perché al-Maliki si era alienato la comunità sunnita. Per prima cosa Al-Abadi ha dovuto occuparsi dell’IS, che a metà 2014 era riuscito a conquistare parti significative del territorio iracheno e siriano e a dichiarare un califfato nella città di Mosul. La cosa si è rivelata piuttosto ardua in quanto l’esercito iracheno si era dissolto e al-Abadi per contrastare l’avanzata dell’IS ha dovuto gioco forza affidarsi alle milizie sciite (che col tempo si sono trasformate nelle attuali Unità di Mobilitazione Popolare (UMP) e alle forze Peshmerga curde.

L’IS era stato in grado di acquistare importanza in quanto godeva chiaramente del supporto delle comunità sunnite, emarginate sotto la guida di al-Maliki. Al-Abadi ha provato a ribaltare tale emarginazione con la promessa di affrontare alcune delle richieste più importanti della comunità sunnita, ma l’attuazione si è rivelata difficile data l’opposizione dei gruppi sciiti e curdi. Col tempo, grazie al supporto dell’UMP, delle forze Peshmerga curde e delle forze internazionali e iraniane, l’Iraq è riuscito a sconfiggere l’IS a metà 2017.

Dopo la sconfitta dell’IS, l’Iraq ha dovuto affrontare delle grandi sfide, con un paese che si trovava a fare i conti con le conseguenze di anni di conflitti: circa 3 milioni di sfollati interni, 30% della popolazione bisognosa di assistenza umanitaria, e infrastrutture, quali quelle legate alla produzione elettrica e alla distribuzione idrica, pesantemente danneggiate. Nel frattempo, la sconfitta dell’IS ha acceso un altro conflitto etnico, ossia il desiderio da parte dei curdi di guadagnare l’indipendenza, e nel settembre 2017 i partiti politici curdi hanno organizzato un referendum a favore dell’indipendenza disposto in tutti i territori controllati dal Governo Regionale Curdo (KRG), nonostante la forte opposizione da parte del governo federale e di Turchia e Iran, preoccupati che il referendum potesse incoraggiare le popolazioni curde nei propri territori a reclamare l’indipendenza. Come prevedibile, l’esito del contestato referendum ha indicato che il 93% dei votanti era in favore dell’indipendenza.

Il governo federale ha reagito prontamente al referendum e alla conseguente spinta all’indipendenza, bloccando i voli internazionali verso la regione curda (KRI) e riprendendosi il controllo dei territori ricchi di petrolio di Kirkuk e Nineveh (due regioni controllate dal governo curdo ma non ufficialmente parte della regione curda). La Turchia ha minacciato di chiudere l’oleodotto che esporta il petrolio dalla regione curda alla Turchia, le banche curde sono state escluse dal sistema bancario iracheno e la Turchia e l’Iran hanno chiuso le frontiere con il Kurdistan iracheno (KRI). Inoltre, il referendum si è inimicato diversi alleati curdi, inclusi i partner occidentali. Queste misure hanno avuto un forte impatto sull’economia curda, in particolare la perdita dei giacimenti petroliferi a Kirkuk e Nineveh, che hanno comportato per il governo curdo una perdita del 50% circa delle proprie entrate. A conti fatti, il referendum curdo si è dimostrato un grossolano errore di calcolo, e il Presidente della regione curda, Masoud Barzani, fra i principali fautori della richiesta di indipendenza, ha annunciato le proprie dimissioni. Il governo curdo ha quindi messo una pietra sopra alle aspirazioni di indipendenza.

Nel maggio 2018 sono state organizzate le elezioni parlamentari federali, molto più frammentate del passato a causa delle scissioni in seno ai diversi partiti. Peraltro, è stato rassicurante vedere i tentativi dei principali blocchi di rivolgersi ad una platea più trasversale al di là dei singoli gruppi etnici, diversamente dall’approccio seguito da al-Maliki in passato, che concentrava la sua campagna nella zona sciita del paese e raccoglieva il consenso della base elettorale sciita seguendo una linea dura nei confronti dei curdi e alienandosi la popolazione sunnita. Le elezioni sono state vinte dal partito populista anti-establishment Saairun e dalla coalizione al-Fatah, capitanata da Hadi al-Ameri, ex comandante di spicco dell’UMP, arrivata seconda. Ci è voluto del tempo per arrivare a formare il nuovo governo, ma alla fine si è giunti ad un accordo nell’ottobre 2018, dopo che al-Abadi aveva annunciato che non intendeva restare attaccato al potere. Abdul Mahdi è diventato Primo Ministro, ed è considerata una figura conciliatoria benevisa sia dagli USA che dall’Iran. In precedenza, aveva coperto l’incarico di Ministro delle Finanze e Ministro del Petrolio in diversi governi dopo il 2004.

Nonostante questi passi avanti, restano ancora da superare diverse sfide. Attualmente sono cinque gli elementi più rilevanti che influenzano il rischio politico di medio/lungo termine:

  • Innanzitutto, nel medio termine le tensioni tra il governo curdo e il governo federale potrebbero riaccendersi. Tuttavia, la reazione determinata del governo federale ha soffocato sul nascere la spinta all’indipendenza dei curdi e l’attuale governo curdo sta cooperando con il governo federale. Se è prevedibile che vi saranno frequenti discussioni in merito alla quota di budget federale spettante alla regione curda, le tensioni fra iracheni e curdi non dovrebbero però sfociare in una crisi vera e propria. Inoltre, è rassicurante constatare che l’attuale Primo Ministro, Abdul-Mahdi, vanta un efficace track record in termini di comunicazione con la leadership curda.
  • Secondo, le proteste populiste – contro la bassa qualità dei servizi, la corruzione e le interruzioni del servizio elettrico e idrico – si sono riaccese in diverse occasioni, soprattutto durante l’estate. L’estate scorsa, nella provincia ricca di petrolio di Basra, le proteste sono state più dure del solito, e sono sfociate nella distruzione dell’ufficio del governatore, del consiglio provinciale e del consolato iraniano. Comunque, attualmente queste proteste ricorrenti non sono considerate un grosso rischio per la stabilità politica. Le proteste estive di Basra hanno attirato l’attenzione mondiale e hanno danneggiato la posizione dell’allora Primo Ministro al-Abadi, ma non hanno provocato alcuna instabilità politica. In prospettiva, il governo ha lanciato diversi programmi di investimento su larga scala, ad esempio l’operazione da 15 mld USD con General Electric per ammodernare la rete elettrica. Grazie a questi investimenti dovrebbe essere possibile appianare alcune delle rimostranze e quindi nel tempo ridurre l’intensità e la frequenza delle proteste. Per quanto non si possa escludere che vi siano alcune proteste anche questa estate o in futuro, non dovrebbero essere fonte di forti instabilità politiche.
  • Terzo, per il suo posizionamento geografico, l’Iraq si trova stretto tra l’Arabia Saudita e l’Iran, due potenze regionali avversarie. Storicamente l’Iran ha rappresentato una presenza forte grazie alla sua influenza ideologica sulla comunità sciita, all’influenza sulle forze UMP e al fatto che l’Iraq si affida ancora all’Iran per soddisfare parte del suo fabbisogno energetico. Per gli USA questa è una spina nel fianco in un momento in cui l’amministrazione Trump ha aumentato la pressione sull’Iran. L’Arabia Saudita e gli USA stanno operando attivamente per cercare di ridurre l’influenza globale dell’Iran, cosa che potrebbe far aumentare le tensioni geopolitiche. In particolare, per l’Iraq un aumento della tensione geopolitica potrebbe portare ad uno stallo politico in quanto nel parlamento vi sono diversi blocchi che sostengono attivamente l’Iran. Maggiormente preoccupante sarebbe se l’Iran dovesse far leva sul proprio controllo sull’UMP per attaccare le attività americane in Iraq. Negli ultimi due mesi le attività USA nel paese sono stato oggetto di alcuni attacchi missilistici di piccola portata, e si considera per ora improbabile che vi possa essere un attacco su larga scala agli interessi USA da parte dell’UMP pro-iraniano. Nel governo iracheno e nella comunità religiosa si sono alzate diverse voci importanti, fra cui quella di al-Sistani, per chiedere la non-interferenza delle forze straniere in Iraq. Inoltre, il Primo Ministro Adel Abdul-Mahdi ha emanato un decreto che regola maggiormente l’UMP, per cui in teoria non possono più operare con il loro nome o essere politicamente attivi. Il decreto è entrato in vigore ad agosto 2019, ma ci vorrà molto più tempo per la sua adozione. È comunque un primo passo verso un maggiore controllo sull’UMP, e quindi una ridotta capacità militare dell’Iran in Iraq.
  • Quarto, le comunità sunnite e sciite restano divise e per quanto improbabile potrebbero svilupparsi dei focolai di tensioni. Dalla presidenza di al-Maliki e l’avvento dell’IS, i leader sciiti si sono resi conto dell’importanza di sostenere la comunità sunnita e di prestare ascolto alle loro rimostranze, come chiaramente evidenziato nelle ultime elezioni, dove i partiti hanno allargato il proprio sguardo al di là della setta di appartenenza.
  • Infine, esiste il rischio di rinnovati attacchi insurrezionalisti e il ruolo futuro dell’UMP è incerto. Attualmente questo, insieme alle tensioni tra USA e Iran, è considerato il principale fattore di rischio politico a MLT in Iraq. La domanda è se l’UMP sarà disposta ad anteporre la propria lealtà verso il paese a quella nei confronti di una persona o un partito specifico. In ogni caso, dato che attualmente i partiti e le persone a cui attualmente fanno capo puntano alla stabilizzazione dell’Iraq, come evidenziato nella loro lotta contro l’IS, non si prevede che l’UMP possa essere un fattore destabilizzante. Fra gli aspetti positivi, attualmente l’UMP, insieme alle forze curde e all’esercito iracheno, esercita un forte controllo sul territorio iracheno, inibendo quindi l’attività di eventuali gruppi insurrezionalisti nell’area.

Di conseguenza, mentre il rischio politico rappresenta indubbiamente il maggior fattore di rischio in Iraq, attualmente però osserviamo un duraturo processo di stabilizzazione in atto, nonostante gli anni di conflitto abbiano indebolito notevolmente il quadro istituzionale in Iraq.

Vulnerabilità economiche all’orizzonte

L’Iraq ha beneficiato del sostegno di diversi programmi del FMI. Innanzitutto, nel 2004 è stato concluso un accordo di Assistenza d’Emergenza Post-Conflitto. Nel 2005, 2007 e 2010, sono stati stipulati tre accordi stand-by (ASB); quelli del 2005 e 2007 sono stati di natura puramente precauzionale, mentre per l’ASB del 2010 i finanziamenti sono stati effettivamente erogati. Il programma del 2010 non è stato più rispettato quando i prezzi del petrolio hanno cominciato a salire, fornendo al governo un inatteso flusso di ricavi che ha ridotto la necessità di finanziamenti esterni. Dopo la fase di boom dei prezzi petroliferi, l’Iraq, alle prese con minori introiti petroliferi e con il costo della guerra contro l’IS, ha nuovamente richiesto il sostegno del FMI. I finanziamenti sono stati erogati nell’ambito di uno strumento di Finanziamento Rapido nel 2015, seguito da un ASB nel 2017. L’adempimento degli obblighi richiesti dall’ultimo programma del FMI (luglio 2016-luglio 2019) è stato inadeguato, e il programma non è stato rispettato già in agosto 2017 ed è scaduto nel luglio 2019.

Uno dei problemi con i programmi del FMI è che generalmente l’Iraq godeva di una bilancia dei pagamenti abbastanza solida, soprattutto nei primi anni di coinvolgimento del FMI e durante i boom petroliferi, la qual cosa sembrava aver fornito al FMI qualche bastone e carota per motivare il governo iracheno ad adottare le riforme necessarie, come si evince analizzando l’evoluzione dei dati finanziari del governo. Con il conflitto continuo con l’IS e i prezzi del petrolio bassi, il disavanzo pubblico era salito al 12,8% del PIL nel 2015 e al 13,9% del PIL nel 2016. Una volta risalito il prezzo del petrolio e con la fine del conflitto con l’IS, il saldo di bilancio si è ristabilito riportando alla fine del 2018 un avanzo pari al 7,9%, che ha ridotto la necessità di ottemperare al programma del FMI. Secondo le stime attuali del FMI, a fronte dei diversi programmi infrastrutturali che intende avviare, l’Iraq dovrebbe arrivare a registrare un disavanzo del 4,1% nel 2019 e del 5% circa nel medio termine. Tuttavia, dato che attualmente il livello di debito pubblico è pari a meno del 50% del PIL e i progetti infrastrutturali dovrebbero sostenere la crescita, secondo le stime il rapporto debito pubblico/PIL nel medio termine dovrebbe aumentare lentamente. Comunque, il FMI ha avvertito che forti disavanzi di bilancio potrebbero erodere le riserve della banca centrale se non dovessero essere finanziati attraverso finanziamenti esteri.

Per quanto riguarda le finanze pubbliche, una delle maggiori sfide per l’Iraq è rappresentata dalle spese correnti relativamente elevate, mentre ciò di cui ha bisogno il paese sono gli investimenti in conto capitale per poter sistemare le infrastrutture. In particolare, gli stipendi dei dipendenti pubblici fagocitano circa il 40% della spesa pubblica, in aumento rispetto al 25% negli anni 2010-13. Questo è in parte il risultato delle reti clientelari utilizzate dai vari partiti politici, che dovranno essere riportate sotto controllo se il paese intende continuare a investire nelle infrastrutture. Un’altra sfida è rappresentata dalla forte dipendenza dagli introiti da petrolio e gas, che rappresentano il 90% circa delle entrate pubbliche, mentre il gettito fiscale copre solo il 5%.

Un quadro simile si osserva analizzando le entrate di parte corrente. Gli idrocarburi nel 2017 rappresentavano il 92,4% delle entrate totali in valuta estera, e l’aumento dei prezzi petroliferi nel 2017 e 2018 hanno generato degli avanzi delle partite correnti più corposi. Nel 2017 Iraq registrava un avanzo di parte corrente pari all’1,8% del PIL, mentre nel 2018 era arrivato a toccare il 6,9% del PIL. Nei prossimi anni l’Iraq dovrebbe importare più beni strumentali a fronte dei grandi progetti infrastrutturali in programma, quindi le partite correnti dovrebbero ritornare in disavanzo, previsto al -4,1% nel 2019, per arrivare negli anni successivi al 3,5% circa.

La crescita ha rispecchiato l’impatto degli anni di conflitti e di fluttuazione dei prezzi del petrolio, e perciò è stata relativamente volatile. Nonostante ciò, in media nel periodo tra il 2005 e il 2016 si è attestata al 6,3%. Nel 2017 e 2018 è stata modesta a causa dei tagli della produzione petrolifera e la perdurante incertezza politica. Visti i progetti di investimento per i prossimi anni però, la crescita dovrebbe salire al 4,6% nel 2019 e al 5,3% nel 2020. Nel medio termine si prevede attestarsi attorno al 2,1%.

La cancellazione del debito ha migliorato le prospettive finanziarie

La situazione finanziaria dell’Iraq è solida in quanto il paese ha un debito estero contenuto grazie alla forte remissione dei debiti ottenuta nella metà degli anni 2000 nell’ambito del Club di Parigi. Nel 2018 il debito estero totale era pari al 69% delle entrate totali da esportazione, o al 30% del PIL. Nel medio termine si prevede che aumenti, in quanto è probabile che il governo faccia ricorso a finanziamenti esteri per finanziare il programma di investimenti infrastrutturali, comunque nello stesso arco di tempo il rapporto debito/esportazioni dovrebbe rimanere al di sotto dell’80%. Meno del 15% del debito estero totale ha scadenza a breve.

Dato il livello relativamente basso di debito con l’estero, anche il servizio del debito estero è relativamente basso. Nel 2018 il paese ha speso meno del 3% delle entrate correnti per rimborsare il debito estero, e negli ultimi sette anni in media solo il 3,7%, sebbene si preveda che salirà al 9% circa delle entrate correnti totali entro il 2022.

Le riserve irachene sono ampie e negli ultimi anni sono rimaste stabili. Alla fine del 2018 erano sufficienti a coprire circa 9 mesi di importazioni e avrebbero potuto coprire persino quasi il 90% del debito estero totale. Tuttavia, secondo lo scenario di base attuale del FMI, si prevede un forte calo delle riserve entro il 2024, in quanto secondo tale scenario i prezzi del petrolio più bassi e le limitate capacità di ricorso all’indebitamente metteranno sotto pressione le riserve.

Ciò mette in luce la maggiore vulnerabilità dell’Iraq sul fronte della sua economia, ossia che la forte dipendenza dalle entrate petrolifere in combinazione con la volatilità dei prezzi del petrolio potrebbero deteriorare piuttosto rapidamente alcuni degli indicatori economici in caso di calo significativo del prezzo del petrolio. Tuttavia, i livelli di indebitamento dovrebbero continuare ad essere sostenibili anche in uno scenario di prezzi del petrolio bassi, a dimostrazione che i maggiori rischi risiedono nel contesto politico.

Analista: Jan-Pieter Laleman – jp.laleman@credendo.com

Facts & figures

Pros

Dalla cancellazione del debito del 2005, la situazione finanziaria è solida
La situazione della liquidità è tranquilla
La situazione della violenza politica è in costante miglioramento

Cons

Le tensioni geopolitiche potrebbero propagarsi per effetto spillover
Un calo dei prezzi petroliferi potrebbero far deteriorare rapidamente gli indicatori economici
Tensioni fra le comunità sunnite e sciite e rischio insurrezioni

Capo di stato

Presidente Barham Salih

Capo del governo

Primo Ministro Adil Abdul-Mahdi

Popolazione

38,4 milioni

PIL (2018)

224.100 milioni USD

PIL pro capite

5030 (reddito medio/alto)

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